mercoledì 14 maggio 2014

LA GRANDE STORIA DELL’EQUIPE 84

Carissimi lettori,

In attesa delle anticipazioni del n.85 di "Jamboree Magazine" di prossima uscita, pubblichiamo parte dell'articolo di Luca Selvini dal n.81 aprile/giugno 2013



....“Giornale Radio: ieri, 29 Settembre, in occasione del...”

Inizia così quella che potremmo definire la canzone più famosa dell’Equipe 84, rimasta impressa nella memoria collettiva per via del famoso inserto del Giornale Radio e questa che segue è la dettagliata storia della loro strepitosa carriera.

Alla metà degli anni ‘50 il fenomeno del Rock’n’Roll aveva ormai contagiato molti aspiranti musicisti e in tutte le principali città italiane si sviluppò una nutrita scena musicale, fatta di formazioni dilettantistiche che occupavano le cantine, le sale da ballo, gli oratori e i bar di periferia per dedicarsi al culto di questa nuova ed eccitante musica d’oltreoceano; Elvis era naturalmente il modello da seguire e la chitarra elettrica, lo strumento più agognato.

A Modena c’erano già parecchi ragazzi che operavano nel campo musicale, tutti più o meno destinati ad un futuro di grande successo, c’erano cantanti come Gianni Borelli e Roman Rock (al secolo Romano Morandi), e gruppi come Johnny e i Marines e i Golden Rock Boys capeggiati da un giovanissimo Andrea Mingardi; ed è proprio qui che nel 1957 iniziò l’avventura di quello che sarebbe divenuto uno dei gruppi di grande fama e successo, se non il più grande di tutti: l’EQUIPE 84.

In quell’anno un giovane di nome Victor Adolfo Maria Sogliani, fondò assieme all’amico Francesco Guccini un duo vocale, chiamato The Blue Caps derivato ovviamente da Gene Vincent, al quale si ispiravano. 

Ben presto il duo divenne un vero gruppo con l’inserimento di altri ragazzi e mutò il nome in Hurricanes; con Guccini come cantante e chitarrista, Sogliani al sassofono, un bassista di cui nessuno ricorda il nome e Pierluigi “Pier” Farri (futuro produttore discografico), alla batteria; la nuova formazione iniziò a suonare un repertorio costituito da classici del Rock’n’Roll nei teatrini parrocchiali, poi dopo gli inevitabili cambiamenti (il bassista venne “licenziato” e Victor lo sostituì allo strumento), nel 1959 gli Hurricanes divennero per un breve periodo Snakers e infine Le Tigri; questa volta con loro c’era anche la sorella di Victor alla chitarra ritmica e un nuovo cantante e chitarrista solista: Maurizio Vandelli

Agli albori del nuovo decennio la sorella di Victor abbandonò la band e al suo posto subentrò un certo Franco Ceccarelli, mentre nel 1960 Sogliani se ne andò a suonare il basso con una formazione “rivale”, I Marinos, un sestetto capeggiato dal pianista Marino Salardini che comprendeva anche Franco Fini Storchi alla chitarra, Paolo Guarnera al sax, di nuovo Guccini alla chitarra e voce e Alfio Cantarella alla batteria, un catanese trapiantato a Modena. L’anno successivo i Marinos cambiarono nome in Paolo e i Gatti e fecero circa 73 concerti fino al novembre 1962, mentre Vandelli e Ceccarelli, avevano formato un nuovo complesso assieme a Luigi Simonini al basso e Claudio Dotti alla batteria e si erano chiamati I Giovani Leoni.

A fine anno, Fini Storchi e Guccini dovettero lasciare Paolo e i Gatti per prestare il servizio militare e i rimanenti chiesero a Vandelli di entrare come cantante e chitarrista nel gruppo; egli accettò, ma per evitare una complessa vicenda legale per danni alla sua band ci si accordò per inserire in formazione anche l’altro chitarrista Franco Ceccarelli: per la prima volta i futuri membri dell’Equipe si erano ritrovati e passarono l’inverno a suonare a Cortina d’Ampezzo in apertura di Peppino di Capri e Don Marino Barreto Jr.

Quando nell’autunno del 1963 Salardini abbandonò il gruppo per unirsi ai Marines, nel giro di poche settimane anche Guarnera se ne andò e i quattro superstiti stanchi delle solite denominazioni che i complessi di allora usavano e desiderosi di distinguersi, su suggerimento dell’amico Pier Farri divenuto loro produttore, cambiarono nome in Equipe 84. 

Secondo la testimonianza di Vandelli egli stesso propose la parola Equipe, mutuata dal nome di una band di musica folk Tahitiana stampato sulla copertina di un disco trovato per caso, e quella denominazione femminile piaceva a tutti anche se mancava qualcosa in più da aggiungere, un aggettivo o un numero; dopo aver scartato l’ipotesi di Equipe di Modena, venne fuori “84” preso a prestito dal famoso brandy della Stock, si trattò in pratica di una “furbata”, nella speranza di ottenere più pubblicità e magari apparire col gruppo in un Carosello.

Il 13 dicembre del ’63 l'Equipe 84 debuttò al Grotta Azzurra di Carpi (MO); i quattro ragazzi coi capelli ancora corti ma elegantemente vestiti suscitarono subito l’interesse del pubblico per via dell’ottimo impasto vocale, per il repertorio fatto di novità provenienti dall’America, ma anche per l’aspetto stravagante dei musicisti (Maurizio era magrissimo, Franco era considerato “il bello” del gruppo, Alfio era piccolo di statura e stralunato, mentre Victor era alto quasi due metri); poi finalmente nel gennaio seguente avvenne l’esordio discografico per l'etichetta Caravel; il singolo, stampato in un migliaio di copie conteneva sul lato A un pezzo ispirato al “Doo-Wop” intitolato Liberi di amare, mentre il retro era occupato da Canarino va, canzone dedicata alla squadra del Modena Calcio le cui maglie sono appunto di color giallo; il disco fu distribuito per lo più allo stadio tra i tifosi ed oggi ha una quotazione elevatissima tra i collezionisti – il brano Liberi di amare verrà poi ristampato più avanti su un 45 giri pubblicato dall’etichetta Hobby assieme a Non guardarmi così dei Freddie’s, un gruppo romano anch’esso sotto contratto con la Caravel.

Nella primavera del 1964, grazie all’interessamento di Gian Pieretti, che li aveva visti suonare, i ragazzi vennero presentati ad Armando Sciascia, titolare della casa discografica Vedette, che li scritturò subito e promise loro di fargli incidere un disco; forti del nuovo contratto, l’Equipe iniziò a battere a tappeto tutte le balere, i night e i locali della Riviera Romagnola, ma Victor dovette partire per fare il militare e fu quindi sostituito dal modenese Romano Morandi, che in futuro inciderà a
lcuni singoli col nome di Romano VIII.

Il primo singolo “ufficiale” dell’Equipe 84 uscì su Vedette nell’ottobre di quell’anno con Morandi al basso: Papà e Mammà, cover di Papa-Oom-Mow-Mow dei Rivingtons e Quel che ti ho dato, versione italiana di Tell Me dei Rolling Stones, segno inequivocabile che nel nostro paese ormai la nuova moda dei “capelloni” si stava divulgando velocemente.

Il 17 febbraio del 1965 si inaugurò a Roma un locale prestigioso, il Piper, e la serata di apertura venne affidata proprio all’Equipe assieme ad un gruppo inglese giunto in Italia più di un anno e mezzo prima: The Rokes; le due formazioni si erano incontrate l’estate prima in un night-club di Cattolica; Vandelli e compagni erano andati a vedere questi Rokes spinti dalla curiosità e ben presto tra loro si sviluppò una sincera amicizia, nonostante la stampa in seguito definì i due gruppi “rivali”, un po’ come i Beatles e i Rolling Stones.

Sempre nello stesso periodo uscì il terzo 45 giri, Ora puoi tornare/Prima di cominciare, la prima era una cover di Go Now dei Moody Blues, mentre il lato B riprendeva il ritornello di I Get Around dei Beach Boys, soprattutto nello stile vocale in falsetto, cosa che accomunava molta della prima produzione del gruppo, poi in maggio Sogliani terminò il servizio militare e riprese il suo posto; successivamente i ragazzi parteciparono ad un programma R.A.I per presentare la canzone Prima di cominciare, dove furono curiosamente accompagnati da un’intera orchestra e infine partirono per una lunga tournée di tre mesi in Spagna, al ritorno dalla quale, già dall’accoglienza riservatagli all’aeroporto, la band scoprì di essere diventata famosissima nel nostro paese.

                                                                                                                               ...continua su Jamboree Magazine n°81





martedì 6 maggio 2014

CHI SIAMO? SIAMO NOI: THE ROKES!

Carissimi lettori,

In attesa delle anticipazioni del n.85 di "Jamboree Magazine" di prossima uscita, pubblichiamo parte dell'articolo di Luca Selvini dal n.82 luglio/settembre 2013

Amati alla follia dai loro fans, considerati da molti come i Beatles italiani e ben presto diventati (assieme all’Equipe 84) il complesso beat più famoso del nostro paese, The Rokes, o meglio, I ROKES furono i primi musicisti inglesi a stabilirsi in Italia e a vendere milioni di dischi, fungendo da apripista per le decine di altre formazioni d’Oltremanica che li seguirono e che fecero parte della nostra piccola “British Invasion”.

Come molte delle avventure musicali di gruppi beat che affondano le radici nel Rock and Roll, anche la nostra ha inizio nella prima metà degli anni cinquanta a Londra. In un quartiere periferico a nord-ovest della capitale un ragazzino altissimo e magro di nome Norman David Shapiro, classe 1943, di origini ebree russe (il nonno paterno Salomon era fuggito dalla sua terra dopo i famigerati pogrom), prende lezioni di pianoforte e violoncello sin dalla tenera età, visto che in famiglia tutti suonano uno strumento musicale; poi come spesso capita agli adolescenti, nel 1956 rimane affascinato dai dischi di Jerry Lee Lewis, Buddy Holly, Chuck Berry e Little Richard, impara quindi a suonare la chitarra e assieme a dei coetanei decide di formare il suo primo complesso diventandone il leader e cantante ed esibendosi ai ritrovi studenteschi, ai compleanni e alle feste per il Bar-Mitzvah (il momento in cui un bambino ebreo raggiunge l'età della maturità).

Per mantenersi si impiega come commesso in un grande magazzino, sempre però continuando a suonare occasionalmente finché nel 1959 decide di passare al professionismo e risponde all’inserzione pubblicata su un giornale che cercava un chitarrista per il gruppo di Robb Storme, un cantante che aveva una discreta notorietà nella zona. 

Con la denominazione Robb Storme & The Whispers la band, con il sedicenne Norman Shapiro, parte per un tour di quattro serate in Irlanda del Nord e per una settimana a Newcastle, poi a fine anno lui e altri musicisti, che nel frattempo hanno lasciato Robb, si esibiscono in piccoli club della capitale dove una sera vengono notati dall’agente di Gene Vincent che propone loro di accompagnare il famoso rocker americano nella sua tournée inglese.

 Al termine di questa esperienza il gruppo, battezzato Laurie Jay Combo, dal nome del leader e batterista, prosegue la sua carriera in maniera autonoma e comprende Shapiro al piano elettrico e chitarra, un altro chitarrista di cui nessuno ricorda il nome e un tale chiamato Dave al basso.

Nel 1961 c’è un cambiamento, Norman assume la leadership della band e ne cambia la denominazione in Shel Carson Combo e il posto di batterista ora è occupato da Mike Shepstone, nato nel Dorset nel 1943 e figlio di genitori che avevano un salone di parrucchiere; a quattordici anni egli aveva imparato a suonare questo strumento e aveva formato il suo primo gruppo: The Carltones, un ensemble che suonava pezzi degli Shadows. Poco tempo dopo viene aggiunto alla formazione un diciassettenne chiamato Bobby Posner; costui aveva iniziato ad esibirsi molto presto con il Johnny Harris Combo e allo scioglimento della band aveva risposto alla richiesta di Norman che cercava un nuovo bassista.

Agli inizi del nuovo anno gli Shel Carson Combo spostano il loro suono, indirizzandolo verso il R&B e cominciano a battere a tappeto tutti i club più esclusivi della capitale dove questo verbo inizia a diffondersi rapidamente; nel frattempo Shapiro ha assunto in via definitiva l’appellativo di “Shel”.

In autunno un certo Victor Harvey Briggs, classe 1944, un talentuoso chitarrista già “sponsorizzato” dal prestigioso Big Jim Sullivan entra nella band – Vic (come viene chiamato) – ha già suonato con vari gruppi, tra i quali una nuova edizione del Laurie Jay Combo, gli Echoes, coi quali ha accompagnato in tour Jerry Lee Lewis, e i Peter Nelson and The Travelers e nell’inverno a cavallo tra il ’62 e il ’63 si esibisce con Shel e gli altri quasi ogni sera in un nuovo locale di Carnaby Street, il Roaring Twenties, un fumoso club prevalentemente dedito allo ska ma aperto anche al blues e particolarmente apprezzato da giamaicani, militari americani, jazzisti, studenti del college e mods; qui a fine serata nascono spontanee jam session a fianco di gente come Eric Clapton, Jeff Beck, Long John Baldry, o Cyril Davies che ha appena formato i suoi All-Stars e nei quali militano il pianista Nicky Hopkins e un ancora sconosciuto Jimmy Page alla chitarra.

Il combo suona successivamente in varie parti della Scozia e dell’Inghilterra del Nord e poi parte per una tournée di tre mesi in Germania, ad Amburgo, dove ottiene una residenza fissa al Top Ten Club, al termine della quale Vic Briggs decide di lasciare per tornare a suonare con Peter Nelson nei Peter’s Face; nel ‘65 è di nuovo negli Echoes che stavolta fanno da spalla a Dusty Springfield e l’anno successivo entra prima negli Steampacket con Brian Auger, Julie Driscoll, Rod Stewart e Long John Baldry, poi diventa membro dei New Animals di Eric Burdon, coi quali partecipa al famoso festival di Monterey nel 1967. 

Dopo anni come musicista attivo in studio, si è convertito da molto tempo alla religione Sihk e oggi è conosciuto come praticante di yoga e autore di musica indiana col nome di Antion.

Torniamo al gruppo, che dopo aver cercato un nuovo chitarrista solista lo trova nella persona di Johnny Charlton, un ragazzo nato nel 1945 che all’età di quattordici anni, aveva imparato da autodidatta a suonare la chitarra e a sedici si esibiva già da professionista nelle basi militari americane in Francia. 

Con lui in formazione allo Shel Carson Combo viene offerta l’opportunità di accompagnare per cinque settimane in Italia un certo Colin Hicks, fratello del più noto rocker inglese Tommy Steele. E da qui inizia la loro leggenda.

Il genere che fanno i ragazzi in realtà ha ben poco in comune col repertorio di Steele, più votato ad un rock’n’roll “canonico”, ma l’occasione è buona e non possono lasciarsela scappare; per contratto però devono cambiare nome provvisoriamente in The Cabin Boys ed essi accettano di buon grado. Giungono  a Milano l’8 maggio del 1963 e dopo aver esordito al Cinema-Teatro Alcione ed essersi fermati per diversi giorni, si recano a Torino per una serie di spettacoli – accade però che una sera Hicks perde la voce a causa di una laringite e l’impresario chiede ai ragazzi esibirsi comunque da soli, il pubblico nostrano non è abituato al grezzo suono del R&B dei quattro ma rimane subito deliziato anche dall’aspetto e dai capelli con la frangia (di Beatles qui da noi non si è ancora sentito parlare), tanto da oscurare la presenza di Hicks stesso, che dopo aver ripreso a cantare col gruppo, effettivamente riceve meno consensi degli altri. 

A Roma al Teatro Jovinelli, la loro popolarità è in aumento costante e da qui inizia la carriera in ascesa del gruppo, che due giorni prima della fine del tour riceve un’inaspettata offerta di restare nel nostro paese da un tale di nome Teddy Reno, che li vuole scritturare come musicisti di accompagnamento per Rita Pavone, ai tempi già molto famosa. 

Da sinistra: Shel Shapiro, Mike Shepstone, Bobby Posner e Johnny Charlton.

Tutto sembra procedere per il meglio ma dopo l’estate, finito il tour con Rita e ancora nel dubbio se restare in Italia o tornare a Londra, le cose sembrano stagnare e per gli Shel Carson Combo si delineano giorni di miseria, senza soldi in tasca e con poche possibilità di esibirsi; fortunatamente in inverno Teddy Reno li convoca ancora per accompagnare la Pavone e offre loro un contratto con la ARC, la sussidiaria moderna della RCA e con esso la possibilità di incidere un 45 giri.


                                                                                                                                                                            
                                                                                                                         ...continua su Jamboree Magazine n°82



giovedì 1 maggio 2014

Storia della Minigonna

Carissimi lettori,

In attesa delle anticipazioni del n.85 di "Jamboree Magazine" di prossima uscita, pubblichiamo parte della Rubrica 'Vintage & Style' dal n.82 luglio/settembre 2013


Quest’anno ricorre il suo cinquantesimo compleanno, ma non è mai stata così giovane: la minigonna, nata nel pieno del tumulto ‘reazionario’ della Swinging London, è forse il capo d’abbigliamento che, più di qualsiasi altro, incarna la doppia valenza di innovazione ‘modaiola’ e fenomeno di costume, elevandosi a simbolo tout-court di uno straordinario mutamento epocale e della linea di rottura che il movimento giovanile sancisce nei confronti delle precedenti generazioni. 

‘O tempora, o mores!’, come recita il detto di ciceroniana memoria. La mini si origina nel contesto perfetto di una Londra piacevolmente ‘sconvolta’ dalla frizzante atmosfera di inizio anni ’60, quando l’anticonformismo e la ‘fantasia al potere’ si diffondono ed esplodono in un tripudio di caleidoscopiche trasgressioni che coinvolgono i giovani a 360°: dalla moda al lifestyle, passando per la spiritualità e i valori tutto è ‘nuovo’, ‘rivoluzionario’, ‘diverso’, vissuto all’insegna di quella ‘Freedom’ che, una manciata di anni dopo, fu grido di battaglia di Jimi Hendrix. La mini nasce ufficialmente nel 1963 e la sua ideazione viene storicamente associata a una giovane designer, Mary Quant, nata a Blackheat – un sobborgo della città del Big Ben – nel 1934.

Anticonformista per natura, diplomata al Goldsmith College of Art, Quant pensa di tradurre in attività professionale ciò che per lei, fino a quel momento, era stato solo un hobby: creare vestiti. 

Nel 1955 apre dunque una boutique in King’s Road, Bazaar, dove comincia a proporre abiti dagli orli progressivamente sempre più corti. 

L’idea le balena in mente una sera, mentre osserva alcune ragazze che ballano alla taverna del Savoy: “Le ho viste con quelle sottane sotto al ginocchio che facevano una fatica terribile a tenersi in piedi con quel ritmo forsennato”, commenta, e il giorno dopo è intenta a disegnare miniabiti e ad accorciare orli.




Ma il più famoso ‘colpo di forbice’ della storia, quel taglio netto di almeno 20 cm che sarà destinato a rivoluzionare i costumi e la cultura a titolo permanente, lo compie – così vuole la leggenda – in onore della Mini, l’auto che preferisce e che, all’epoca, è il must have della Londra più à la page. 

La Mini ha dimensioni ridotte, sfreccia scattante tra le strade della Swinging London affascinando tutti i giovani ribelli.

Quant crea, ispirata dal suo modello, una gonna fatta di pochi centimetri di stoffa per consentire alle ragazze la massima libertà di movimento, la liberazione da ogni costrizione, l’indipendenza fisica e morale. 

Bazaar è il punto fisso di riferimento per gli under 30 attratti dalle avanguardie, e si tramuta nella meta fashion per eccellenza a livello mondiale: nel 1963, i giovani rompono gli schemi creati dalle vecchie generazioni originando una frattura irreversibile che si esprime anche, e soprattutto, nel look. 

Ecco quindi che i capelli lunghi per i ragazzi e la mini per le ragazze diventano sommi simboli di emancipazione e di rottura con le convenzioni che esprimono una forza incredibile, mai vista prima d’ora. 
I giovani fruiscono di un proprio mondo a parte: adorano boutique indirizzate specificamente ad un target ‘teen’ come Bazaar, Biba, Granny Takes a Trip, solo per citarne alcune. 

I Rolling Stones e la Beatlesmania stimolano ed esprimono il loro cotè ribelle. 

In un simile contesto, l’impatto sociale della minigonna è potentissimo: la lunghezza iniziale che Quant ha fissato a due pollici sopra il ginocchio arriverà, per accentuarne la valenza anticonformista, a diventarne 4, poi 8, in una escalation progressiva che porterà la mini a ricoprire appena la coscia. 

E’ il 1963 quando le vetrine di Bazaar espongono la prima minigonna: il boom è colossale, anche grazie ad una felice intuizione di Mary Quant che sceglie Twiggy come sua prima ed unica testimonial, veicolandone l’immagine internazionale con sapiente efficacia.

Non una modella professionista, bensì un’apprendista parrucchiera appena sedicenne, Twiggy (al secolo Lesley Homey) ha le phisyque du role per esprimere un rivoluzionario concetto di stile: il suo volto e il suo corpo filiforme sono altrettanto ‘di rottura’ del capo che si accinge a presentare, estranei ad ogni regola e convenzione estetica finora prefissate. 

Grandi occhi da cerbiatta, lentiggini spruzzate sul naso, un bob dorato che richiama al nuovo taglio lanciato - sempre nel 1963 - da Vidal Sassoon, Twiggy si distanzia fisicamente anni luce dal modello della ‘maggiorata’ fino ad allora in voga. 

Detta le coordinate di un nuovo mood, diretto più a compiacere il proprio sguardo che quello maschile, e suscita immediatamente l’ammirazione di una schiera di proseliti dando il via alla moda della ‘donna grissino’. 

Niente fianchi e seno, gambe svettanti e magrissime, Twiggy – ossia ‘ramoscello’ – diverrà un’icona di stile la cui immagine rimarrà associata alla minigonna per sempre.  

...continua su Jamboree Magazine n°82